La vita di arbëresh in Calabria negli anni Cinquanta

La vita di arbëresh in Calabria negli anni Cinquanta
 Foto della comunità Arbëresh nel sud Italia
 La ripresa postbellica delle comunità italo-albanesi nel periodo 1945-1956 è caratterizzata dalla profonda crisi economica e sociale ereditata dal fascismo e dalla guerra che svuotò i villaggi della migliore giovinezza del paese.

La caduta della monarchia sabauda e la nascita della Repubblica danno uno spirito di speranza a popolazioni stremate dalle fatiche della guerra e dai soprusi di una classe di proprietari terrieri che cercano di mantenere un potere oppressivo su gran parte della popolazione inerme.

Con la nuova Repubblica arriva nel 1948 la nuova Costituzione repubblicana, che all'articolo 6 prevede una legge speciale a tutela delle minoranze interne e storiche del territorio italiano. Viene poi approvata la legge sull'assegnazione delle terre ai contadini poveri, seguita anche dalla legge di riforma agraria. Intanto riprende la migrazione in cerca di speranza che ha spinto i meridionali ad emigrare in remoti paesi dell'America e dell'Australia. Solo con la firma dei Trattati di Roma sulla costruzione del MEC e l'inizio della ricostruzione del Paese, che avrebbe portato alla prosperità economica, le vie dell'emigrazione cambiarono: il giovane Arbëresh salì sui treni che li avrebbero portati nelle città del Nord Italia e oltre confine con Benelux, Francia, Belgio, Svizzera e Germania Ovest.

 1953 - Paolo Cinanni

Nel 1953 Paolo Cinanni, storico sociale ed economico della Calabria, partecipò al primo Convegno della Memoria nel cinquantesimo anniversario della morte di Jeronim De Rada, organizzato il 13 settembre dall'amministrazione comunale di San Demetrio Corone [San Mitre] e promosso dall'"Associazione Italiana per le Relazioni Culturali Italo-Albanesi", presieduta dall'avvocato Franco Bugliari di "Santa Sofia d'Epiro" [Santa Sofia]. Il studioso calabrese, dopo una descrizione delle valli organizzata dalle donne arbëresh di molti comuni di lingua albanese e dopo aver condotto una breve ma ben riassunta escursione nella storia degli arbëresh di Calabria, affronta il tema delle condizioni economiche e sociali in cui popolazione di lingua albanese vive in Calabria.

"Sono proprio questi meriti patriottici", scrive Paolo Cinanni, "che danno agli albanesi il diritto di avanzare alcune pretese, in quanto minoranza nazionale - che per le stesse condizioni che hanno accompagnato la formazione delle colonie - si trova oggi in una posizione di inferiorità rispetto alla maggioranza autoctona. Infatti, al momento del rovesciamento del feudalesimo, le comunità furono erette in comuni autonomi, conservando i vecchi confini feudali. Gli albanesi mantennero gli stretti confini ai quali erano attesi, senza le necessarie correzioni. Pertanto, la miseria e la disoccupazione dei paesi albanesi, a causa della maggiore densità di popolazione e povertà del territorio (spesso montuoso) sono più gravi che altrove.

Ad eccezione di Lungro [Ungra] dove la miniera di salgemma - dove sono impiegati a tempo indeterminato minatori, operai e manovali, creano l'idea di un piccolo centro industriale-agricolo - tutti gli altri sono villaggi prettamente agricoli.

Tra le categorie di popolazione, prevalgono quelle dei piccoli agricoltori diretti e quelle dei braccianti agricoli, che spesso trovano lavoro fuori dal territorio comunale, nella valle del Crati o nella Piana di Sibari, nei periodi stagionali di spiumatura e raccolta del grano, raccolta delle olive, eccetera.

Sono anche molto abili nella tessitura della seta, che ha centri specializzati a Cerzeto [Qana], S. Demetrio [Santa Mitra], ecc. A Spezzano Albanese [Spixana], S. Demetrio [San Mitre] e in alcuni altri centri è presente anche una piccola industria di lavorazione stagionale delle olive.

"Ma quando si tratta di industrie, la popolazione di questi paesi rimane tra le più povere del sud Italia".

Dati del primo indice statistico del 1958

 La pubblicazione nel 1958 dell'Annuario Statistico dei Comuni d'Italia, che fornisce i dati del Censimento del 1951 ei dati raccolti nel 1955, conferma nei numeri i riscontri analitici sociali delle comunità italo-albanesi osservati da Paolo Cinanni.

Queste città, per la maggior parte, si trovano nelle zone interne dei sistemi montani delle province di Cosenza e Catanzaro, lontane, per la maggior parte, dal capoluogo. Spezzano Alb. [Spixana] (320 m), Caraffa di Catanzaro [Garafa] (360 m) e Firmo [Ferma] (369 m) sono gli unici comuni che non superano i 400 metri sul livello del mare, seguono Plataci con 930 metri e oltre da Castroregio con 857 metri e Acquaformosa con 758 metri. I restanti centri variano tra i 430 ei 634 metri sul livello del mare, la maggior parte dei quali supera i 500 metri sul livello del mare. Anche il sistema di comunicazione stradale tra le comunità linguistiche e la capitale è difficile e farraginoso. Lontani da Catanzaro sono Pallagorio (130 km), Carfizzi (120 km) e San Nicola dell'Alto (119), mentre in provincia di Cosenza i più lontani dal capoluogo sono Castroregio (128 km) e Plataci (110 km). Se il comune più vicino a Catanzaro è Caraffa di Catanzaro (34 km), quelli più vicini al capoluogo cosentino sono Falconara (20 km) e San Benedetto Ullano (30 km). Tutti gli altri percorrono distanze che superano i 40 chilometri. Sono pochissimi i centri attraversati da strade statali su lunghe distanze. Spezzano è più fortunata perché incrocia la Strada Statale 19, storicamente nota come strada consolare "Via Popilia-Annoia", iniziata nel 132 a.C. per collegare la città di Gaeta con i porti dello Stretto alla Sicilia. Si tratta quindi di strade realizzate nell'Ottocento, alcune di epoca borbonica, altre dopo l'Unità d'Italia, ma tutte con pista bianca e sterrata, tranne poche centinaia di metri nel tratto abitato.

Le informazioni di Cinanni sull'estensione territoriale dei comuni italo-albanesi sono molto rilevanti in relazione ai confini dei territori comunali che risalgono praticamente a quelli segnati dal notaio Sebastiano La Valle in Platea del 1544, su commissione dell'imperatore Carlo V. Tutto si può verificare leggendo i "Bollettini" emessi dalle Commissioni di Stato nella prima parte dell'19esimo secolo. Accurate anche le informazioni sullo stato di produttività dei terreni comunali, per la maggior parte distribuiti a monte degli abitati, con ampi fondi ricoperti da vegetazione montana e dissodamento, per lo più improduttivo, esclusi i castagneti. Sono solo tre i comuni con territorio esteso verso la pianura, senza estensione montana: Spezzano Alb. [Spixana], Firmo [Ferma] e Caraffa di Catanzaro [Garafa]. Mentre Spezzano, il centro più abitato, ha solo 3333 ettari di terreno, Vaccarizzo [Vakarici] ha una superficie di 846 ettari e San Nicola dell'Alto, che è più piccola, ha una superficie di soli 763 ettari. San Demetrio Corone è invece la città più grande con 5778 ettari.

In soli quattro anni, 1951-1955, la densità di popolazione per chilometro quadrato cambiò drasticamente. Sono 88 le unità per chilometro quadrato nel 1951, che diventano 100 nel 1955. Ci sono, quindi, alcune vette ad alta intensità a San Nicola dell'Alto, che ha una superficie di 763 ettari e una popolazione del 2843, con 372 abitanti per chilometro quadrato e in Vaccarizzo Alb. [Vakarici] con una popolazione di 1915 abitanti su 846 ettari pari a 226 abitanti per chilometro quadrato.

L'annuario statistico aiuta molto a capire come si svolgeva la vita quotidiana in questi paesi negli anni 50. La popolazione cresce di 8417 unità. Si va dai 56595 abitanti del 1951 ai 65012 del 1955. Un incremento demografico straordinario, forse inspiegabile con gli attuali mezzi di indagine di cui dispongono, soprattutto in connessione con il movimento migratorio, che esploderà pochi anni dopo la firma del Trattato di Roma che istituisce il Mercato comune europeo.

Un'indicazione, ma solo tale, è fornita dalla sezione relativa al movimento residente nel 1955. Il registro dei dati anagrafici e negativo. Le persone registrate nei comuni italo-albanesi sono complessivamente 1004. Di questi nuovi iscritti, 969 provengono da comuni italiani e solo 35 da paesi esteri, mentre 1578 sono stati cancellati; di questi, 241 si trasferirono all'estero e 1337, invece, in altri comuni italiani. Positivo invece il movimento naturale, con una differenza di 865 unità tra nati vivi (1402) e nati morti (537).

Nel computo complessivo tra movimento di anagrafe e movimento naturale si registra un saldo positivo di 331 unità che incrementano la popolazione residente. Oltre a queste informazioni schematiche, è molto difficile procedere, soprattutto con le varie e dettagliate analisi che devono riguardare un periodo storico che inizia almeno dal 1935, prima dell'entrata in guerra dell'Italia.

Come analizza Paolo Cinanni, tra le attività più produttive c'è quella del settore agricolo con una popolazione attiva di 30218 addetti, pari al 53,40% della popolazione totale del 1955. Analizzando la percentuale della popolazione impegnata in attività agricole, emergono dati che evidenziano un realtà rurale con molti chiaroscuri e contraddizioni secolari, tra la brillante ricchezza di alcuni latifondisti e la diffusa povertà che raggiunge quasi il 90% della popolazione e le cui origini hanno probabilmente la loro origine nella riforma del Catasto Onciario III di Borbone di re Carlo nel 1743, consolidata, poi con la riforma feudale napoleonica e la mancata distribuzione delle terre demaniali ai cittadini poveri dei comuni nati con le riforme avviate nel 1806 da Giuseppe Napoleone, re di Napoli.

Su 25 comunità di lingua albanese, in 16 di esse, con valori superiori all'80%, la popolazione attiva impegnata in agricoltura è compresa tra il 70/80%. Quindi in 20 comunità su 25 più di tre quarti della popolazione attiva trae il proprio sostentamento dall'agricoltura. Si tratta per lo più di una piccola parte di piccoli proprietari terrieri e agricoltori diretti, e una grande folla composta da braccianti agricoli, che spesso trovano lavoro fuori del comune, nella Piana di Sibari o nella valle del Crati, durante i lavori agricoli stagionali, il grano raccolta, raccolta delle olive. Indubbiamente, le famiglie dei grandi proprietari terrieri che possiedono più dell'80% dei terreni agricoli non appartengono a questa cifra.

I cinque comuni che non superano il 70% in ordine decrescente sono: Spezzano Albanese (68%), San Benedetto Ullano [San Bendhiti] (65%), San Basile [San Basilio] (56%), Lungro [Ungra ] (51%) e San Nicola l'Alto [Shën Kohu] (50%). Comuni che, però, non scendono sotto il 50%, confermando l'affermazione secondo cui all'interno di tutti i comuni Arbëreshë esiste una nutrita banda di piccoli proprietari agricoli, principalmente agricoltori che coltivano direttamente piccoli appezzamenti di loro proprietà e non disdegnano di dedicarsi ad attività artigianali come fabbri, sarti, calzolai, falegnami e nei mesi della raccolta delle olive hanno la fortuna di essere impiegati nei frantoi per la trasformazione delle olive.

Le donne sono impegnate esclusivamente in attività agricole: raccolta delle olive, raccolta e lavorazione di fichi e castagne, tessitura con l'antico telaio di coperte di lana o filo di ginestra e panni per abbigliamento. E, sempre nel campo della produzione dei tessuti, in quel decennio la produzione della seta era ancora viva in molte comunità.

Fonte: Diasporta Shqiptare.
Nuova Vecchia