Di Marion MARDODAJ
In un modo o nell’altro, ogni essere umano porta con sé una determinata malattia. Non si tratta soltanto di una debolezza biologica o di un disturbo clinico, ma di una condizione esistenziale: la difficoltà inevitabile dell’individuo a conciliarsi pienamente con l’ambiente che lo circonda.
Ogni epoca, infatti, stabilisce i propri criteri di salute e di malattia, di normalità e di anomalia. Un uomo nato nell’anno 1000 era costretto a misurarsi con la spada, con la fame e con la sopravvivenza fisica; chi non era capace di adattarsi a quel mondo veniva percepito come fragile, malato o inutile. Al contrario, chi nasce nel 2020 deve affrontare un contesto completamente diverso, in cui la capacità di adattarsi alla tecnologia, alla velocità dell’informazione e alla complessità sociale diventa la nuova forma di sopravvivenza. Chi non riesce a padroneggiare questi strumenti viene etichettato, se non come “malato”, almeno come “inadeguato”.
In un certo senso, dunque, ogni essere umano è malato, ma la natura della sua malattia dipende dal tempo e dal luogo in cui vive. La malattia non è mai assoluta, ma relativa: è lo scarto inevitabile tra ciò che siamo e ciò che il nostro contesto richiede da noi.
I leader rappresentano il punto più estremo di questo paradosso. Coloro che vengono percepiti come guide spesso custodiscono le malattie più profonde: illusioni che molto raramente sono trasformate in visioni, eppure le catastrofi umane e materiali che questi leader causano vengono nella maggior parte dei casi ignorate, con delle "scuse", o dimenticate; isterie elevate a ideali collettivi manipolati in "extremis". Eppure, la folla non manca mai di applaudire, soprattutto quando quell’illusione sembra finalmente assumere la forma di una promessa concreta. Così, i mali interiori del singolo leader finiscono per diventare mali universali, guerre e conflitti che gravano su intere popolazioni.
Forse proprio per questo, la ricerca accademica dovrebbe interrogarsi con maggiore serietà sul legame tra isteria e leadership. Non come curiosità marginale, ma come chiave di lettura fondamentale per comprendere le dinamiche del potere e della storia. L’isteria non è solo un disturbo psichico, ma una forza che può muovere intere masse, condurre popoli verso il progresso o precipitarli nell’abisso.
Se l’umanità riuscirà a riconoscere questa fragilità universale, potrà forse iniziare a trasformare la malattia in coscienza, la debolezza in adattamento creativo. Solo allora saremo pronti a unire le nostre forze non per distruggerci, ma per andare oltre i confini del nostro pianeta, esplorando insieme lo spazio e i suoi misteri.
In questa prospettiva, anche l’Albania e i Albanesi devono avere un posto nel viaggio cosmico dell’umanità. La sua storia di resistenza e libertà mostra come persino i popoli più piccoli abbiano contribuito, con le loro lotte e sacrifici, alla costruzione dei valori universali. Non si tratta di una questione di grandezza geografica o numerica, ma di eredità morale: un contributo che non deve mancare quando l’uomo sarà chiamato a portare le sue fragilità e le sue speranze oltre la Terra.